BOB GELDOF The Vegetarians Of Love - UK 1990
BOB GELDOF
The Vegetarians Of Love - UK 1990
Famoso più per aver interpretato il protagonista del film The Wall, dei Pink Floyd, e per le
attività benemerite di promotore nel 1984 di Band Aid e nel 1985 dell’epocale
Live Aid per raccogliere fondi in favore dell’Etiopia colpita dalla carestia, che
per essere stato il frontman dei Boomtown
Rats, band pop-rock irlandese, Bob
Geldof, dopo lo scioglimento dei ratti, nel 1986 pubblica Deep In The Heart Of Nowhere, suo primo
album solista all’insegna di un pop melodico e piuttosto mediocre. Seguiranno
quattro anni di silenzio che sarà interrotto nel 1990 da The Vegetarians of Love, album che sorprende per il netto cambio di
sonorità che virano verso un folk-rock dylaniano ed influenzato dalla musica
tradizionale irlandese. Bob attinge alle proprie radici, immerge le braccia
fino a i gomiti nella musica della sua terra e la mischia al pop, ma a dispetto
del folk leggiadro e melodico, costellato di violini, fisarmoniche, mandolini e
pennywhistle, Geldof riversa nei testi amarezza, desolazione e percezioni
apocalittiche. Un calice di fiele che sorseggia lentamente accompagnandolo con
pochi assaggi di beffarda ironia come in “The Great Song Of Indifference” dove,
ballando una giga, un suo alter ego manda
a farsi fottere il mondo intero.
The Vegetarians of
Love è ossessione dolente d’amore, legami spezzati che ti imprigionano nella
sofferenza, Lazzari ubriachi e lo scrittore irlandese Brendan Behan ovvero “un bevitore con problemi di scrittura”,
piccole meraviglie quotidiane, Piazza Tiananmen, la sonda Voyager 2 ed il suo viaggio
diretto ai confini del sistema solare ed oltre, il caldo bagliore di un
momentaneo ritorno alla felicità, il ricordo del padre in piedi sul molo, Nostradamus
e Gesù e Buddha e Bob che annunciano la fine del mondo nell’ultima sarcastica
filastrocca. Elementi disparati, anche banali benché nobilitati da messaggi
umanitari e da arringhe sociopolitiche, che Bob mette a decantare in queste
canzoni, ottenendo una pozione che non lenisce il dolore ma che scava,
approfondisce, stimola la riflessione.
"A Gospel Song", "Thinking Voyager 2-type
Things", "Crucified Me", il
momento più oscuro dell'album, “The Chains of Pain", "No Small
Wonder", "Walking Back to Happiness" che insieme alla Grande Canzone
dell’Indifferenza sono gli apici dell'album e la cupa, spudorata parodia finale
di "The End of the World", risuonano di Van Morrison, di Dylan, dei
Boomtown Rats, dei Chieftains e dei Waterboys, di Ewan McColl e Christy Moore. Sono
schizzi di creazione, crescita, amore, sesso, avanzare dell’età e morte.
Insomma Bob ci parla della vita con ironia, onestà, cuore e compassione, senza ricorrere
a cliché e melodramma.
Nell’estate del 1990 ero in Irlanda. In una notte stellata, dopo
qualche pinta di Guinness, camminando per le strade di Dublino dalle parti di
Montjoy Street, mi imbattei in una immagine a grandezza naturale di Geldof che
mi osservava con sguardo sornione da un muro con l’intonaco in parte scrostato.
Il manifesto annunciava il concerto che Bob aveva già tenuto in città il mese
precedente. Peccato, mi sarebbe piaciuto vederlo. L’angolo superiore destro del
manifesto pendeva mestamente dal muro e pensai che se non potevo avere Bob in
carne ed ossa, almeno quei 3 o 4 metri quadrati di carta sarebbero stati miei.
Staccai il manifesto dal muro scrostato abbastanza facilmente facendo
attenzione a non strapparlo e fu così che portai Bob con me, ben arrotolato,
per il resto del mio viaggio.
Oggi lo sguardo sornione di Sir Bob Geldof, baronetto della
corona, mi fissa ancora ma relegato in garage per prosaiche ragioni di spazio.
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