GUTTERBALL Gutterball - US 1993
GUTTERBALL
Gutterball - US 1993
Dopo lo scioglimento dei Dream Syndicate e dopo due album da solista nei quali aveva cercato di allontanarsi dal suono della sua band senza tradire le radici del Paisley Underground e della scena alternativa della Los Angeles degli anni ’80, nel 1993, Steve Wynn, è alla ricerca della propria personalità artistica e scopre di voler suonare ancora in una band, o meglio in una specie di supergruppo indie, i Gutterball, insieme a Bryan Harvey (voce, chitarra) e Johnny Hott (batteria) degli House Of Freaks, Stephen McCarthy (chitarra, voce) dei Long Ryders e Bob Rupe (basso, voce) dei Silos.
La leggenda racconta che i Gutterball - che credo sia traducibile come “groppo in gola” - si incontrarono a Richmond, in Virginia, dove avevano ottenuto l’ingaggio per un concerto e dove Wynn ed Harvey in soli quattro giorni buttarono giù tutti i brani che compariranno sull’album ad eccezione di una canzone composta da Stephen McCarthy. Ma il materiale risultò così buono e la band si era così divertita che quello che doveva essere un evento unico divenne un progetto.
Dopo il quinto concerto i Gutterball andarono
in tour con i Black Crowes e firmarono un contratto con la Elektra Records per
pubblicare il loro album di debutto che racchiude in 48 minuti dodici schegge
di orecchiabile ed avvincente garage - roots - rock.
I Gutterball
sono epigoni, ma di grandissima classe. Senza innovare offrono il loro appassionato
contributo al rock’n’roll.
Il loro
debutto omonimo si dipana in modo armonico tra il Dylan del periodo Bringing It
All Back Home di “Trial Separation
Blues” e di “Lester Young”
ed il piccolo capolavoro garage di “Falling
From The Sky” che ricorda da vicino le cavalcate elettriche dei Dream
Syndicate, percorrendo i sentieri della crepuscolare “Motorcycle Boy”, che
potrebbe passare per una outtake di On The Beach di Neil Young, oppure di una “One By One”, gemella separata alla
nascita di “My Old Haunts” dei Syndicate di Ghost Stories, a sua volta figlia
del connubio Brecht-Doors di “Alabama
song (Whiskey Bar)”; o ancora seguendo le orme di una eccezionale “The Preacher
and the Prostitute” di Stephen McCarthy, tracimante elettricità chitarristica,
in bilico tra Beatles, Birds e Buffalo
Springfield, fino all’altrettanto straripante beat’n’roll al fulmicotone di
“Patent Leather Shoes” in cui Beatles e Stones
d’annata deragliano fino alla conclusiva confessione reediana di “Blessing in
Disguise”.
Wynn affida i
riff e i ritornelli dell’infanzia alla sua banda di veterani del Paisley
Underground che conoscono la lezione a menadito e creano un album che è per noi
una “benedizione sotto mentite spoglie” - come recita il titolo della citata
“Blessing in Disguise” - per lenire le angosce ed affrontare con la giusta verve quell’avvio degli anni ’90 e,
ancora oggi, qualche giornata non proprio ben riuscita.
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