TOM WAITS Rain Dogs - US 1985





















TOM WAITS
Rain Dogs - US 1985

Scrivere di Tom Waits mi intimorisce.

Amo i suoi dischi, quasi tutti, nelle diverse fasi che ha attraversato e con i diversi volti che ha assunto, ma è difficile parlare - e forse ancor di più scrivere - di chi ami, soprattutto se si tratta di uno dei più grandi geni musicali del ventesimo secolo, incrocio tra il Compagno di Sbronze Bukowskiano ed un protettore dei bassifondi, disincantato cronista dei sogni lunghi un giorno, artista primitivo ed intellettuale, eroe post-moderno delle ore piccole, dei club fumosi in cui sfilano processioni di eccentrici derelitti ed in cui Waits, con autentica partecipazione alle vicende dei suoi personaggi emarginati e sbandati, esibisce la sua voce rauca e biascicata - tanto armoniosa quanto una crisi epilettica - che spazia da toni che sfiorano l’afasia ad ululati feroci.

Ma è proprio la voce ad amalgamare la mistura di musica popolare alla quale attinge Waits. Blues, Gospel, Folk, Bebop, Swing, marcette da Esercito della Salvezza, rumori prodotti da oggetti raccattati per strada, modellano il paesaggio sonoro multiforme su cui imperversa la voce di Tom, cantore visionario.

Rain Dogs è il primo album di Tom Waits che ho ascoltato. Il primo contatto con il virus che mi ha infettato ed al quale inizialmente il mio sistema immunitario ha cercato inutilmente di reagire.

Come ho già raccontato a proposito di un album dei Green On Red, Gas Food Lodging e Rain Dogs furono eletti ex aequo miglior album del 1985 dalla rivista Il Buscadero ed acquistati a scatola chiusa. Rain Dogs mi lasciò esterrefatto. Come poteva quella claustrofobica cacofonia dominata da una voce al vetriolo e sgraziata essere il miglior album dell’anno?

Eppure, malgrado la repulsione iniziale verso quella musica che non riuscivo a capire, c’era qualcosa che mi spingeva a poggiare ancora ed ancora la puntina su quei solchi, come se il mio inconscio fosse consapevole che in quel vinile si celasse un segreto che valeva la pena svelare.

Finché, qualche tempo dopo, beccai alla TV l’esibizione di Tom Waits al Premio Tenco 1986, di cui era vincitore. Presi al volo una videocassetta (si, eravamo ancora nel pleistocene) e la infilai in fretta e furia nel videoregistratore, rimanendo incantato - mentre registravo quel nastro che avrei visto e rivisto - da quell’ipnotizzatore che sembrava impacciato e fuori posto su un palcoscenico e che, ad un certo punto, declamò “Walking Spanish” accompagnandosi solo con incudine e martello.

Non avevo mai visto e udito niente di simile. Ecco, era fatta. Tom aveva vinto. Come per un gioco di prestigio, improvvisamente la sua musica non era più ostica. Adesso comprendevo quel caos meraviglioso tenuto in ordine dalla voce da lupo mannaro. Non potevo non amarlo.

Rain Dogs è il degno seguito del precedente e rivoluzionario Swordfishtrombones e, insieme al successivo Frank’s Wild Years, compone la splendida trilogia centrale della discografia waitsiana.

"Non esiste il diavolo. E' solo dio quando è ubriaco", disse una volta Tom. Ed evidentemente Rain Dogs è stato concepito mentre Dio si trovava in stato di ebbrezza, talmente è luciferino e denso di suoni bislacchi che formano un coacervo di Blues espressionista e decadente,  trasgressione bohemien, cabaret etnico, folk primitivo e rock primordiale.

Diciannove brani tentacolari, testi disarticolati, ritmi spezzati, arrangiamenti frantumati. Kurt Weill intinto nel Blues, cantato da Howlin' Wolf con la raucedine e suonato dalla chitarra schizofrenica di Marc Ribot che, con Michael Blair, John Lurie, Greg Cohen, Robert Quine ed addirittura Keith Richards, contribuiscono a creare il caos organizzato generale.

Diciannove brani che vanno dalla danza tribale-caraibica di “Singapore”, alla processione funebre per percussioni e marimba di “Clap Hands”, al delirio balcanico di “Cemetery Polka”, dalla rumba paludosa di “Jockey Full Of Bourbon”, alla filastrocca da Vaudeville di “Tango Till They're Sore”, al voodoobilly sincopato di “Big Black Mariah”, alla litania cupa di “Diamonds & Gold”.

Nei cinquantaquattro minuti di Rain Dogs, tuttavia, Waits a volte fa ritorno alla musica più convenzionale dei suoi primi dischi, in brani come l'orecchiabile "Hang Down Your Head", "Time" e soprattutto nella springsteeniana "Downtown Train" (trasformata in una hit da Rod Stewart cinque anni dopo).

Nel mezzo ci sono la fisarmonica tzigana di “Rain Dogs”, il Blues arcaico di “Gun Street Girl”, il Boogie da licantropo di “Union Square”, la serenata Country di “Blind Love”, lo splendido Bebop di “Walking Spanish”, il funerale Jazz finale di “Anywhere I Lay My Head”, con Waits che ulula alla luna mesto e solitario al suono sgangherato degli ottoni.

Rain Dogs è un album eccessivo e struggente, etilico e straccione, in cui Waits, senza mai un calo d’ispirazione, riesce a fondere inscindibilmente musica, poesia e teatro.

Rain Dogs è  musica per cani randagi, per chi è sperduto e cerca la direzione per tornare a casa.

Rain Dogs è un capolavoro assoluto che insieme a Swordfishtrombones si pone ai vertici della musica popolare degli ultimi cinquant’anni.




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