THE WATERBOYS A Pagan Place - UK 1984


 



















THE WATERBOYS
A Pagan Place - UK 1984

A Pagan Place è un rito di purificazione. È religiosità pagana. È emozione autentica ed esaltante. È “Cuore di terra Selvaggia” che si trasforma in “Chiesa non edificata con le mani”.

Al loro secondo album, i Waterboys realizzano la monumentale fusione tra folk celtico, rock da stadio alla Springsteen, la poesia dolente di Van Morrison, il lirismo alla U2 ed il monolitico “wall of sound” di Phil Spector, realizzando uno degli album più emozionanti di quel periodo. Il loro suono si spoglia degli orpelli Post-punk e, come una crisalide, si trasforma nella “Big Music” abbozzata nell’album d’esordio.

A Pagan Place documenta, inoltre, la metamorfosi dei Waterboys da alter ego di Mike Scott a vera band. Karl Wallinger (pianoforte, organo, percussioni, cori), Kevin Wilkinson (batteria), Roddy Lorimer (tromba) e Tim Blanthorn (violino) si uniscono, in pianta stabile, alla premiata ditta Scott & Thistlethwaite ed il cambiamento di rotta si avverte sin dall’apertura di "Church Not Made With Hands", che si snoda in un crescendo trascinante e catartico di chitarre acustiche, fiati e pianoforte. Mike ha finalmente trovato la sua musa ispiratrice e lo dichiara spavaldamente. “Ma lei esiste nelle ombre, nell'oceano e nella sabbia, ovunque e in nessun luogo, la sua chiesa non è costruita con le mani, non circoscrivibile dall’uomo".

Il talento di Mike è palese, la sua passione è impareggiabile e la scrittura è articolata ed intensa, ma le idee sono semplicemente troppo grandiose per essere realizzate sempre correttamente, nondimeno A Pagan Place è talmente appassionato ed elettrizzante da far ignorare anche gli inevitabili (pochi) passi falsi e gli arrangiamenti talvolta sovrabbondanti.

Lo slancio della citata "Church Not Made With Hands", le ardenti "All The Things She Gave Me" e “Rags”, il flusso vitale della canzone eponima, traboccanti di fiati fuori misura, testimoniano il trionfante entusiasmo di Scott, cantore di un’epica celtica atavica.

Ma soprattutto gli otto minuti emozionanti, solenni e drammatici di "Red Army Blues", che ripercorre le esperienze di un giovanissimo soldato dell’Armata Rossa, durante la seconda guerra mondiale (Scott, successivamente, dirà: “Dovevo essere molto presuntuoso per pensare di poter parlare di qualcosa che non ho vissuto”) ed il vortice sognante di "The Big Music" danno la misura della visione grandiosa e del vigore spirituale di Mike Scott che si erge al livello di Bono, Michael Stipe, Ian McCulloch e Robert Smith, ma apparendo più naturale ed autentico. Bono non avrebbe mai potuto cantare una frase come "Ho ascoltato la Grande Musica e non sarò mai più lo stesso" (The Big Music), senza risultare narcisista.

A Pagan Place ci parla dell'ignoto. Ci interroga su noi stessi. Suggerisce che esiste qualcosa di ancestrale, di più profondo, più intimo, più antico delle apparenze superficiali del nostro mondo.

Un luogo pagano dove nasce la Grande Musica.



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