ROLLING STONES Hackney Diamonds - UK 2023
ROLLING STONES
Hackney Diamonds - UK 2023
Un album dei Rolling Stones è sempre un evento. A maggior ragione se si tratta
del primo album di materiale inedito pubblicato a ben 18 anni di distanza dal
precedente A Bigger Bang e,
soprattutto, se è il primo senza il compianto Charlie Watts dietro i tamburi (tranne che in due brani registrati
nel 2019), e ancor di più se - come è probabile - sarà l’ultimo della carriera di
questi ragazzi ottuagenari.
Presentandosi con quella che verosimilmente
è la più brutta copertina della loro discografia giunta al ventiquattresimo
capitolo, Gli Stones tirano fuori dal loro cappellaccio da corsari di Sua
Maestà britannica, Hackney Diamonds, pieno di ospiti eccellenti e superflui (Paul
McCartney, Bill Wyman, Stevie Wonder, Elton John, Lady Gaga), intervenuti per
celebrare il canto del cigno del Rock’n’Roll inglese.
Mick Jagger
appare in buona forma e le chitarre di Keith
Richards e Ronnie Wood sono tese
e rumorose come non si sentivano da tanto, tuttavia non è tutto oro quello che
luccica. C’è anche della latta che, comunque, attira le gazze ladre.
La produzione di Andrew Watt (che dopo aver lavorato con gente come Camila Cabello, e Justin Bieber ha assunto il ruolo di produttore della imbolsita aristocrazia del rock, da Ozzy Osbourne, Elton John e Paul McCartney, fino al più reattivo Iggy Pop) è troppo patinata e sfavillante - probabilmente con l’intento di rendere appetibile questo disco alle nuove generazioni - e finisce per peggiorare un album che soffre di cadute di tono ma che offre anche episodi ispirati, che viceversa, sarebbero esaltati da un suono più sporco e polveroso.
“Angry”, il primo singolo estratto, è
uno specchietto per allodole, scintillante ma inconcludente e lezioso. Le cose
non vanno meglio in “Get Close”, in “Depending On You”, nel finto punk di “Bite My
Head Off” ed in “Whole Wide World”, che mostrano tanto mestiere, al limite
dell'artifizio, ma poca sostanza ed un po’ di noia.
Il disco inizia a girare per il verso
giusto dalla sesta traccia in poi, quando gli Stones smettono di buttarla in
caciara e di fingere di essere dei trentenni e cominciano a fare gli Stones,
coloro che il Rock’n’Roll l’hanno inventato. “Dreamy Skies” è uno sgangherato country-blues
tutto chitarre acustiche e slide che rimanda a giorni gloriosi. “Mess it Up” è il
primo dei due brani con Charlie alla batteria e si sente subito il suo tocco
swingato che imprime il ritmo ed il mood funky che riporta la memoria a “Miss
you”. “Live By The Sword” è l’altro brano in cui ascoltiamo le bacchette di Charlie
Watts, ma stavolta c’è anche Bill Wyman
al basso, il che significa che qui abbiamo riuniti, per l’ultima volta, tutti i
membri storici dei Rolling Stones, almeno quelli dagli anni ‘70 in poi. Wyman
una volta spiegò che “La maggior parte
delle band segue il batterista. Noi no: Charlie segue Keith”, quindi la
batteria è una frazione di secondo indietro rispetto al ritmo. “Live By the
Sword” è un’esplosione furiosa di puro sound Stones con l'aggiunta di Elton John che, risvegliatosi dal
torpore, martella sui tasti del suo pianoforte nel ruolo un tempo occupato da Ian
Stewart, mentre Jagger ulula alla luna.
“Driving Me Too Hard” e “Tell Me
Straight” - quest’ultima con Keith alla voce che si chiede "il mio futuro è tutto nel passato?" - sono ballate un
po’ di maniera ma tutto sommato godibili.
Ma sono le ultime due canzoni a
strapparci un sorriso. La bella - anzi bellissima - ed appassionata “Sweet
Sounds of Heaven”, soul-Rythm’n’blues in cui l’unica cosa che non quadra è Lady Gaga che, forse nel tentativo di emulare
le acrobazie vocali di Merry Clayton su “Gimme Shelter”, rischia di slogarsi le
corde vocali. E la chiusura ruvida e acustica della canzone che ha dato il nome
alla band, “Rolling Stone Blues” di Muddy Waters, una sorta di ritorno a casa,
un ritorno dove tutto è cominciato, che fa assaporare un senso di mortalità affiorante qua e là in questo disco dei tre
superstiti della più grande Rock’n’Roll band del mondo, che avevano
convinto - noi e loro - di essere immortali.
Ed è questa coscienza di ineluttabilità,
al di là di qualche buona canzone ed a dispetto della maldestra macchina
lucidatrice di Andrew Watt, che dà un senso a questo Hackney Diamonds, forse testamento olografo di 60 anni di carriera
discografica.
"Come finiamo? Come iniziamo?" chiede Richards in “Tell Me Straight”. Una
domanda alla quale Hackney Diamonds fornisce
una possibile risposta.
Commenti
Posta un commento