THE STOOGES The Stooges - US 1969





















THE STOOGES
The Stooges - US 1969

Autunno 1967. I Doors arrivano a Detroit.

James Newell Osteberg Jr. - non ancora trasfigurato in Iggy Pop - si reca con i due fratelli Ashton e con Dave Alexander al concerto del Re Lucertola, nel campus dell’Università del Michigan, ma solo il futuro Iguana riesce ad entrare grazie alla sua tessera della Michigan University.

Ron Ashton racconta: “Io rimasi a gironzolare fuori in modo da poter almeno sentire il concerto. Morrison era veramente ubriaco ed i ragazzini continuavano a chiedere a gran voce Light My Fire”. Jim provoca il pubblico che, inferocito, vuole pestare la band. Il concerto dura non più di venti minuti eppure James/Iggy è entusiasmato dall’aria di sfida di Morrison e dal disprezzo mostrato per il pubblico.

Il seme che di lì a poco produrrà gli Stooges ed il Motor City Sound è stato piantato.

Nel 1969, dopo la sbornia dell'estate dell'amore, i Beatles stavano cominciando ad andare in pezzi, i Rolling Stones - con Let It Bleed - avevano definito il loro suono e firmato un capolavoro, i Led Zeppelin stavano assurgendo a nuova divinità del rock e gli Stooges diffondevano il caos nel Michigan, contendendo agli MC5 il primato di band più feroce di Detroit. Ma se i Motor City Five erano arrabbiati e politici, gli Stooges erano primordiali e decadenti, esprimevano inquietudine, malessere esistenziale, inarticolata furia post-adolescenziale. La voce vividamente indolente e provocatoriamente distaccata del ventiduenne Iggy Pop risuonava violenta, arrogante e perversa.

E nel 1969 gli Stooges pubblicano il loro primo, omonimo, disperato e fragoroso album. Uno degli esordi più sconvolgenti della storia del rock. Un sabba che dura trentaquattro minuti. Un ruggito agghiacciante e nichilista molto prima che l’apatia del punk si estrinsechi nel “No Future” dei Sex Pistols.

Iggy Pop (voce), Ron Asheton (chitarra), Scott Asheton (batteria) e Dave Alexander (basso) incidono otto brani scarni ed ipnotici, costruiti su riff micidiali e ritmiche ossessive, dilaniati dalle scudisciate elettriche inferte dalla chitarra di Ron Ashton. “1969”, “I Wanna Be Your Dog”, “No Fun”, “Real Cool Time”, “Little Doll” e “Not Right sciorinano seminale ruvidità punk.

La psichedelica e sepolcrale “We Will Fall”, che si snoda suadente e sinistra per oltre dieci minuti, cesellata dalla viola del produttore John Cale (quel John Cale) e da un tetro coro da seduta spiritica, sembra (e non è un caso) una versione a rallentatore della velvettiana “Venus in Furs”.

La bellissima “Ann” evoca l'ombra di Jim Morrison e dei Doors - richiamati anche dalla foto di copertina che in qualche modo imita quella del loro primo album - in uno stupefacente contrasto tra la delicatezza della prima parte e le epilettiche convulsioni del finale. Iggy recita le stesse strazianti performance di Morrison, ma scarnificandole, riducendole a nervi ed ossa, privandole della poesia visionaria.

"Little Doll", che inizia con una linea di basso opprimente e termina con un incredibile ululato di wah-wah, è l’ennesimo delirio sessuale ed il degno finale per questo disco che segna l’inizio di una leggenda tra le più influenti e innovative nella storia del rock.

The Stooges è un disco eversivo, un inno primordiale. È la fine del Flower Power e dell’utopia pacifista. È la fine delle percezioni dilatate dall’acido lisergico e l’avvento dell’eroina come fuga del vacuo tedio esistenziale, perché il 1969 “È un altro anno per me e te. Un altro anno senza niente da fare” (1969).

È la colonna sonora della morte degli anni Sessanta.




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