BRUCE SPRINGSTEEN Nebraska - US 1982


 



















BRUCE SPRINGSTEEN
Nebraska - US 1982

Era un martedì sera del 1982. Accesi la tv. Era un po’ tardi, quasi le 23.00. Il giorno dopo ovviamente c’era scuola, frequentavo il quarto ginnasio, ma il martedì andavo a dormire più tardi per non perdere l’appuntamento con Carlo Massarini e Mister Fantasy, il programma su RAI 1 che attendevo un’intera settimana. “Musica da vedere”, la chiamava Massarini. I video di “Rock the Casbah” dei Clash oppure “Hungry Like the Wolf” dei Duran Duran, gli ABC, Pino Daniele, “Do You Really Want to Hurt Me” dei Culture Club, “Leave in Silence” dei Depeche Mode, Kid Creole, i Dire Straits, Flavio Giurato, Mimmo Cavallo, Beppe Starnazza e i Vortici e chi più ne ha, più ne metta. Poi c’era l’immancabile videohit e la sigla finale che di solito era un filmato dal vivo degli Stones, dei Doors, di Jimi Hendrix o qualche altro mostro sacro del passato (allora ancora piuttosto recente).

Massarini di bianco vestito, entra nello studio sulle note del brano dei Traffic che presta il titolo alla trasmissione e, dopo aver dato il benvenuto nell’iperspazio, annuncia il video d’apertura. “Atlantic City” di un tale Bruce Springsteen.

Rimasi incantato davanti a quelle scene in bianco e nero che scorrevano sugli accordi semplici di una chitarra acustica, un’armonica che ti strappava l’anima, una voce accorata e poche note di mandolino.

la copertina di Nebraska è scarna ed essenziale come il contenuto dei suoi solchi di vinile. È nera con le scritte in stampatello rosso e con una foto in bianco e nero di una strada, vista attraverso il parabrezza di un’auto che corre solitaria verso un orizzonte nuvoloso. Nebraska è un disco spiazzante, fuori dal tempo, che ha qualcosa di magico. Insieme a Born To Run e Darkness On the Edge of Town è uno dei tre capolavori di Springsteen. Si, certo, prima c’era stato il grande successo di The River e, di lì a poco, ci sarà Born in the USA che consacrerà definitivamente il Boss e lo benedirà con milioni di copie vendute in giro per il mondo. Entrambi album eccellenti, ma un gradino al di sotto.

Nebraska è il disco che in quel primo scorcio di anni ‘80 non ti aspettavi da chi aveva sbancato tutto, prima con Born to Run e poi con The River. Un album senza fronzoli, sincero e coraggioso, soprattutto perché rappresenta un cambio di rotta repentino rispetto al rock elettrico e da stadio verso cui era diretto Springsteen, che ora rischiava di gettare il successo alle ortiche.

Nebraska è l’album in cui Bruce mostra il suo lato più intimo e cantautoriale, in cui mette a nudo le sue paure, i suoi interrogativi senza risposta, la sua linea morale, più che in ogni altro suo album passato o futuro. E lo fa attraverso il racconto di storie di difficile quotidianità, di emarginati e di criminali, respirando un clima di fuga da vite sbagliate e da errori a cui non si può porre rimedio. Si fugge dalla terra promessa perché il sogno americano è svanito - evaporato come brina sull’asfalto delle Interstate di un’America cinica e arrogante - e si è trasformato in disillusione, ancora maggiore di quella che si respira in Darkness. Le corse in auto di Born To Run sono giunte al capolinea.

Springsteen va alle radici del folk americano, declinando gli insegnamenti di Woody Guthrie, Hank Williams, Johnny cash e Bob Dylan. La musica è scarna - anzi scheletrica - e misteriosa, registrata su cassetta con un Tascam a quattro piste, in una camera da letto dove Bruce strapazza la chitarra acustica, soffia il suo disagio in un’armonica ed intona un canto talmente tetro ed intenso da far accapponare la pelle. Dieci canzoni. Dieci gelidi fotogrammi di provincia americana. La Title track ed “Atlantic City” sono gemme grezze e oscure. “Johnny 99” - splendido inno ai perdenti – “State Trooper” e “Open All night” sono Rock’n’Roll primordiali. “Highway Patrolman” è la storia di due fratelli, Joe poliziotto e Frankie assassino. E Joe lascerà scappare Frankie in Canada infrangendo i limiti imposti dal proprio dovere. “Mansion on the hill”, “Used Cars” e “My Father’s house”, sono bozzetti di un’infanzia semplice e trasognata. Il disco si chiude con “Reason to believe”, in cui Springsteen cerca una risposta, lascia aperta una via d’uscita verso la speranza e la salvezza, lascia all’ascoltatore una ragione per credere.

A distanza di 41 anni, Nebraska rimane semplicemente il culmine della poetica Springsteeniana. E per me, sarà sempre legato a quei fotogrammi in bianco e nero che mi rimasero negli occhi un martedì sera di tanti anni fa, poco dopo le 23.00.



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