AFTERHOURS All The Good Children Go To Hell - ITALIA 1988




















AFTERHOURS
All The Good Children Go To Hell - ITALIA 1988

Rumori da bar di periferia. Suoni di palle da biliardo che si toccano sul panno verde, mentre la radio passa “Start Me Up” degli Stones, poi parte il riff ripetitivo di una chitarra distorta.

Questo è l’incipit del mini All The Good Children Go To Hell (Toast, 1988), esordio dei milanesi Afterhours, in cui Manuel Agnelli, cantante e autore della maggior parte dei brani, il chitarrista Paolo Cantù, il batterista Giorgio Prette ed il bassista Alex Zerilli, mettono in pratica - con attitudine e vitalità punk - la lezione imparata dagli Stooges, dai Rolling stones, dai Sonics, nel segno di un garage rock sporco e morboso, cantato in inglese sulla scia dell’indie degli Stati Uniti (Gun Club e Dream Syndicate sono i primi nomi che vengono in mente).

L’incalzante crescendo di “Midnight Booze”; “Green River”, indemoniata cover al fulmicotone dei Creedence Clearwater Revival; “Indipendent Houses”, avvelenata da una chitarra stoogesiana; l’adrenalina punk-rock di “Pulse In My Blood” e le ballad “Billie Serenade”, che ruba il riff alla hendrixiana “Hey Joe”, nonché la conclusiva “The Lie Of The World”, falsamente rilassata, sono sei canzoni magmatiche, suonate da quattro ventenni che generano ritmi aggressivi ed un suono chitarristico aspro e corrosivo su cui si riversa il cantato acerbo e viscerale di Agnelli.

Non apprezzo quasi nulla delle scelte di Manuel Agnelli e di ciò che gli Afterhours hanno prodotto successivamente, sebbene - soprattutto dopo il passaggio ai testi in italiano - la band abbia acquisito maggiore personalità e sia divenuta un punto di riferimento del rock alternativo italiano degli anni ’90.

La parabola di Manuel Agnelli, che lo ha portato - in veste di “giudice” - alla ribalta televisiva del talent show “X factor”  è, poi, nota a tutti, anche a quelli che questo album non lo hanno neanche sentito nominare. E ripensando a quel lontano 1988 sembra veramente incredibile questa escalation di notorietà accompagnata (come accade quasi sempre) da uno scadimento di contenuti e da una progressiva svendita di principi (ma certamente davanti al successo ed a tanto denaro resistere sarebbe difficile per chiunque).

Ma All The Good Children Go To Hell, benché sia un disco immaturo e certamente non originale, nondimeno è dotato di un’identità ben definita (tanto che la rivista "Il Mucchio Selvaggio" lo includerà tra i 10 migliori album italiani degli anni’80), di una purezza d’intenti, di una energia primitiva e di un contenuto emotivo autentico che mi impongono di amarlo.




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